IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA
    Delegato  nel  corso  di  procedimento per revoca semiliberta' nei
 confronti di Morresi Alessandro, nato a Macerata il 24  luglio  1955,
 ad   acquisire   le   dichiarazioni  del  Morresi  dal  tribunale  di
 sorveglianza di Firenze,
                             O S S E R V A
    In  data  25 ottobre 1989 il tribunale di sorveglianza di Firenze,
 nel corso di procedimento per revoca  di  semiliberta',  ha  delegato
 questo  giudice  ad acquisire le dichiarazioni di Morresi Alessandro,
 detenuto presso la casa circondariale di  Pisa.  Detto  tribunale  ha
 precisato che non intende disporre la traduzione del Morresi che, pur
 volendo  essere  ascoltato  direttamente  dall'organo  decidente,  ha
 tuttavia,   alla   stregua  della  normativa  vigente  (quarto  comma
 dell'art.  666  del  c.p.p.  la  cui  applicazione   risulta   quindi
 determinante  nel  procedimento  in  esame),  solo la possibilita' di
 essere ascoltato da questo magistrato. E'  infatti  da  osservare  al
 proposito   che   l'art.   666,  quarto  comma,  del  c.p.p.  dispone
 relativamente  al  procedimento  di  esecuzione  (applicabile   nella
 fattispecie) che, ove l'interessato sia detenuto o internato in luogo
 posto fuori della circoscrizione del giudice competente  a  decidere,
 sia   sentito   prima  del  giorno  dell'udienza  dal  magistrato  di
 sorveglianza del luogo, salvo che al giudice ritenga di  disporre  la
 traduzione.
    Tale  norma riproduce sostanzialmente la disciplina gia' contenuta
 nell'art. 630, secondo comma, del vecchio codice la cui  legittimita'
 e'  stata  reiteratamente  affermata  dalla  Corte costituzionale (v.
 sent. 5/70 e 159/76).
    Occorre  tuttavia  esaminare  se tale legittimita' possa ritenersi
 sussistente  anche  nell'ambito  dell'ordinamento  posto  dal   nuovo
 codice.
    Nella  vigenza  del menzionato art. 630 del c.p.p. era chiaramente
 ravvisabile   un   orientamento   a    riconoscere    il    carattere
 giurisdizionale  del  procedimento  incidentale  di esecuzione, ma e'
 indubbio che nella nuova normativa si coglie  una  accentuazione  dei
 momenti  giurisdizionali  nel  rapporto  processuale della esecuzione
 che, come  e'  stato  osservato,  pur  mutando  natura,  conserva  le
 finalita'   essenziali   del   processo   di   cognizione  (si  pensi
 all'introduzione della possibilita' di  valutare  anche  in  sede  di
 esecuzione  il concorso formale dei reati e la continuazione, ai fini
 della determinazione della pena). Tale  orientamento  ben  si  coglie
 anche nella direttiva 96 della delega (legge 16 febbraio 1987, n. 81)
 relativa ai principi che regolano attualmente l'esecuzione;  in  essa
 si  sottolinea l'esigenza delle "garanzie di giurisdizionalita' nella
 fase  dell'esecuzione"  ed  in   particolare   la   "necessita'   del
 contraddittorio   nei   procedimenti   incidentali   in   materia  di
 esecuzione".
    Cio' precisato in ordine alle esigenze fondamentali di cui occorre
 tener conto nel  valutare  la  disciplina  posta  dal  quarto  comma,
 dell'art.  666  del c.p.p., e' da osservare che la procedura prevista
 da tale articolo e' applicabile  ad  un  ambito  quantitativamente  e
 qualitativamente  assai  piu'  esteso  e rilevante di quello previsto
 dall'art. 630 del vecchio codice. L'art.  678  del  c.p.p.,  difatti,
 regolando un procedimento unitario per tutte le materie di competenza
 del tribunale di sorveglianza e per gran parte di  quelle  attribuite
 al  magistrato di sorveglianza, rinvia all'art. 666, che viene quindi
 ad essere utilizzato in tutta una  vastissima  serie  di  fattispecie
 estremamente   delicate   in  cui  la  valutazione  discrezionale  su
 situazioni  personali,  familiari  e  lavorative,  su   problematiche
 comportamentali  e sociali acquista un rilievo nettamente preminente.
    Ora,   gia'   nella   menzionata  sentenza  n.  5/1970,  la  Corte
 costituzionale, pur giungendo a dichiarare non fondata  la  questione
 di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  630,  secondo comma, del
 c.p.p., ha osservato (seguendo in cio' i rilievi dell'avvocatura  per
 cui   nella   procedura   incidentale,   a   differenza   di   quella
 dibattimentale,   la   questione   da   risolvere    appariva    gia'
 cristallizzata  e  le  posizioni  delle parti chiaramente delineate e
 reciprocamente conosciute) che  nel  procedimento  incidentale  "alla
 parte  privata  condannata la comparizione di personale e' consentita
 per un fine diverso da quello per cui l'imputato e' convocato  avanti
 al giudice dell'istruzione o del giudizio e che e' un fine, almeno in
 parte, volto all'acquisizione di elementi probatori",  cosicche'  non
 poteva  scorgersi  nessuna  compressione del diritto di difesa in una
 comparizione personale attuata per il tramite di  un  altro  giudice,
 particolarmente  tenendo  conto  "del  carattere  del  procedimento",
 "ristretto  a  questioni  ordinariamente   di   solo   diritto,   ben
 circoscritte  e  determinate".  Anche  nella  sentenza n. 159/1976 la
 Corte  costituzionale  ha  osservato  che  "sulla  base.  .  .  delle
 caratteristiche  proprie del procedimento incidentale" (ristretto, in
 sostanza,  a  questioni  ordinariamente  di  mero  diritto),  nessuna
 rilevanza  poteva  attribuirsi, ai fini della completezza del diritto
 di difesa al fatto che l'art. 630, secondo comma, non  prevedesse  la
 possibilita' per il difensore dell'istante, detenuto in luogo diverso
 da  quello  del  giudice  competente  a  decidere  sull'incidente  di
 esecuzione,  di  essere posto in condizione di intervenire dinanzi al
 giudice di  sorveglianza  o  al  pretore,  delegati  per  l'audizione
 dell'istante stesso.
    Come  accennato,  proprio  il  carattere  del  procedimento di cui
 all'art. 666 del  c.p.p.  e'  nella  nuova  disciplina  profondamente
 mutato   ed   implica  l'acquisizione  di  elementi  probatori  e  la
 valutazione di elementi di fatto che devono essere  approfonditamente
 accertati, esaminati e discussi.
    In una tale situazione, la condizione dell'interessato detenuto in
 luogo diverso da quello in cui ha sede il giudice che  deve  decidere
 sulla  sua  istanza  e' chiaramente deteriore. La Corte di cassazione
 (v. cass. pen. sez. V, ord. 11 maggio 1978, n. 1011) ha osservato che
 nell'incidente  di esecuzione l'intervento diretto del detenuto offre
 "una garanzia poziore rispetto a quella dell'audizione  dello  stesso
 detenuto  da parte di organo diverso da quello decidente" e cio' piu'
 vero nella normativa attuale in cui l'interessato (ove il  giudice  -
 secondo  una  sua  valutazione del tutto discrezionale e che non puo'
 essere oggetto di censura - non ritenga di disporre  la  traduzione),
 non  ha  la  possibilita'  di  essere  udito dal suo giudice naturale
 esponendo le sue problematiche, giustificando i  suoi  comportamenti,
 adducendo  al giudizio nuovi elementi nell'ambito del contraddittorio
 ed alla presenza del difensore. E tale condizione deteriore viene  in
 concreto  ad essere determinata da circostanze occasionali, fortuite,
 che per lo piu' sfuggono totalmente alla possibilita'  di  intervento
 da  parte  del detenuto (sfollamento di istituti con numero eccessivo
 di ristretti, ristrutturazione degli edifici carcerari, ecc.).
    Nella   fase   del  procedimento  di  cognizione,  nonostante  sia
 riconosciuta in taluni casi una facolta' di delega (v.  ad  es.  art.
 294,  quinto  comma,  art.  398,  quinto comma) e' prevista anche una
 presentazione spontanea che da' luogo ad un atto che equivale  ad  un
 interrogatorio  (v.  art.  374)  e  comunque  l'interessato partecipa
 sempre alle udienze in cui si decide il procedimento  instaurato  nei
 suoi confronti (art. 421, art. 441, art. 447, art. 451, art. 474).
    Ne'  d'altra  parte  potrebbe  obiettarsi  che nalle materia della
 sorveglianza in sostanza la disposizione in esame prevede una  delega
 da   parte   del  collegio  ad  uno  dei  suoi  membri:  sia  perche'
 evidentemente  la  possibilita'  di  difesa  sono   realizzate   piu'
 pienamente  allorche'  l'interessato  puo'  esporre  le  sue  ragioni
 all'intero collegio, al momento della decisione  e  con  l'assistenza
 del difensore in contraddittorio con il p.m., sia comunque perche' la
 delega puo' essere effettuata da un tribunale di sorveglianza di  cui
 il magistrato delegato non fa parte.
    In  realta'  la  norma  in  esame,  stabilita  dal  quarto  comma,
 dell'art. 666 del c.p.p. non prevedendo il diritto del condannato che
 sia  detenuto  in  luogo  diverso da quello in cui risiede il giudice
 competente a decidere, di intervenire  personalmente  all'udienza  in
 camera    di    consiglio,    risulta   affetta   da   illegittimita'
 costituzionale, sia nei confronti dell'art.  3,  primo  comma,  della
 Costituzione  (operando  una  disparita'  di trattamento non solo fra
 individui detenuti e non detenuti, ma anche tra gli stessi detenuti),
 sia   nei   confronti   dell'art.  24,  secondo  comma  (ponendo  una
 limitazione al diritto di difesa).
    Difatti  la  disparita'  e  la limitazione suddetti, indubbiamente
 sussistenti, non possono comunque piu' essere considerati "razionali"
 (v.  a  tal  proposito  sent.  n. 5/1970 della Corte costituzionale),
 sotto il profilo che  il  legislatore  avrebbe  giustamente  ritenute
 prevalenti  le  difficolta'  pratiche  scaturenti  da un trasporto in
 stato di detenzione, di fronte alla irrilevanza che il  beneficio  di
 essere  ascoltato  di  personale  dal  giudice  competente a decidere
 rappresenterebbe per il detenuto.
    In  realta'  il  trasporto  di detenuti, anche pericolosi, avviene
 attualmente con estrema frequenza, per i motivi piu' vari  (si  pensi
 ad  es.  ai  permessi  ex art. 30 della legge n. 354/1975), palesando
 cio' come il legislatore e la  prassi  tendano  sempre  piu'  a  dare
 maggiore  rilievo  alle  esigenze  sostanziali  che  alle difficolta'
 logistiche; e comunque la natura stessa delle fattispecie attualmente
 trattate  attraverso  la  procedura di cui all'art. 666 del c.p.p. e'
 tale da non tollerare di essere  compressa  (attraverso  l'esclusione
 del   mezzo   principale  di  difesa  costituito  dalla  comparazione
 personale) da problemi pratici di per se' certo non irresolubili.
    Nella  normativa  attuale  non  puo'  essere  usato un trattamento
 ripugnante alla logica del contraddittorio ed a fondamentali esigenze
 di  difesa,  dando  ingiustificatamente  la  prevalenza  a ragioni di
 ordine materiale o economico.
    Quest'ultima  "filosofia"  si  ritrova  in  verita' anche in altre
 disposizioni del nuovo codice (v. art. 127, terzo comma, del  c.p.p.,
 309,  ottavo  comma,  del  c.p.p., 101, secondo comma, delle norme di
 attuazione). In realta' anche il procedimento in camera di  consiglio
 e' previsto in ipotesi, quali ad es. l'appello contro le ordinanze in
 materia di misure cautelari personali ed il riesame  delle  ordinanze
 che  dispongono  una  misura  coercitiva,  che  non  vertono certo su
 questioni  "cristallizzate",  "di  mero  diritto"  e  "reciprocamente
 conosciute"   ed   in   cui   la  possibilita'  di  essere  ascoltato
 direttamente  dal  giudice  che  deve  decidere  appare  di  primaria
 importanza.
    Sono ipotesi, queste, in cui il diritto di difesa viene compresso,
 analogamente a quanto avviene con il quarto comma, dell'art.  666,  e
 che  la  nuova  normativa,  se  vuol  essere coerente con le esigenze
 espresse nelle direttive della delega, non puo' accettare.